Conferenza pubblica a Zurigo

Impressioni - presentazione della edizione commentata de "Il fondo del sacco", 13 maggio 2019

Quando parlano di "case degli emigranti", i ticinesi amano trattare questo termine alla stregua di una qualifica artistico-architettonica, riferendosi, chi con certezza storica e chi meno, a quelle più o meno rare costruzioni "signorili" che troneggiano sulle vie principali dei loro villaggi: edifici ampi, spesso dai tetti a quattro falde e vanitose di un'ostentazione decorativa che il contadino aveva fino ad allora concesso solo agli edifici sacri. È una definizione pratica, ma che cela una un'amara ironia: sono in fondo le case dei pochi fortunati tra coloro che sono tornati, a dispetto dei molti partiti…

Decorazione, magnificenza e una certa eccentricità non possono allora mancare neppure a una "casa di un emigrante" in versione zurighese: la villa Patumbah, sede dell'Heimatschutzzentrum. La maestosa cornice della villa, realizzata per conto di Carl Grob, fortunato commerciante di tabacco a Sumatra nella seconda metà del XIX secolo, ha ospitato lunedì 13 maggio la presentazione dell'edizione commentata del Fondo del Sacco, curata da Matteo Ferrari e Mattia Pini ed edita da Casagrande. A 40 anni dalla morte di Plinio Martini, eventi come quello zurighese dimostrano il costante entusiasmo che l'opera del valmaggese continua a suscitare. Ne è un esempio la lettera che il figlio dello scrittore, Alessandro Martini, legge prima di cedere la parola ai due relatori: è la lettera di un amico che, terminata da pochi minuti la lettura del Fondo del Sacco, gli si confessa "preso non tanto da una trama che non chiedevo né mi aspettavo quanto da quell'affresco di varia umanità che era, agli occhi di tuo padre, Cavergno e la Val Bavona". "Risale da ogni pagina uno sconfinato ridondante silenzioso lamento cui tuo padre ha dato voce e coscienza tentando di strappare la sua terra alla sua miseria, ridandole una consapevole dignitosa povertà".

Questo lamento, ci ricordano i curatori del volume citando anche Giorgio Orelli, è la realistica opposizione agli artificiali canti idilliaci di Giuseppe Zoppi, scrittore valmaggese di inizio Novecento. "In Plinio Martini le capre sono capre, non sono più le caprettine e le caprette di Zoppi", diceva Orelli. Il lavoro dei due curatori individua finalmente gli argomenti di questa tesi: da un lato identificando posizione e scopo del romanzo nel contesto della sua redazione, nella parte curata da Matteo Ferrari; dall'altro sviscerando il minuzioso lavoro di "funambolismo linguistico" svolto da un Martini intenzionato a "conferire cittadinanza linguistica alla regione, al popolo e alla cultura dei nostri vecchi", nella parte curata da Mattia Pini. Quest'ultimo, prima di dedicarsi a una rassegna di esempi delle precise e ragionate scelte linguistiche del Martini, evidenzia con orgoglio come questo quarantennale dalla morte dello scrittore coincida finalmente con la stagione di un approccio più oggettivo all'opera del valmaggese, che oggi viene riconosciuto a pieno titolo quale intellettuale ticinese del dopoguerra: sembrano sopite le polemiche distruttive o bigotte che macchiarono i primi decenni dall'uscita del romanzo. Oggi Il fondo del sacco di Plinio Martini può essere apprezzato su tutti e tre i binari della sua redazione, come ricorda Matteo Ferrari: il filone narrativo della storia d'amore tra Gori e Maddalena, la pratica del romanzo come attività civile e infine il tema storico. In tutte e tre le direzioni Martini ha avuto il coraggio di raccontare ogni cosa, anche l'irraccontabile, e di raccontarlo con un'attenzione linguistica - frutto di otto anni di lavoro redazionale - che riesce a fare della forma stessa un ulteriore contenuto.

L'urgenza che Plinio Martini ha di raccontare è evidente, e forse assomiglia all'urgenza che noi oggi avvertiamo nei confronti della sua opera: l'urgenza di riscoprirla, di capirla, di conferire alla pratica letteraria del romanzo quel suo ruolo di osservatorio privilegiato della vicenda umana, e con questi presupposti l'urgenza di sentire il Fondo del Sacco come il romanzo della nostra terra. Forse avvertiamo questo bisogno perché dentro di noi scopriamo un'analogia insperata, tra la dirompenza dei rovesciamenti del dopoguerra ticinese e questo nostro tempo così vicino al suo, ma che già abbiamo nuovamente ribattezzato "epoca di un nuovo cambiamento". E, minchioni come Gori, e con lui così umani, cerchiamo sempre instancabilmente qualcuno che ci sappia raccontare noi stessi.

Rocco Cavalli